Divina Commedia - Canto XXXII e Canto XXXIII dell'inferno

«Là dove i peccatori stanno freschi»

Gelata - Freddura - Ghiaccia - Freddo


Alcuni stralci tratti dai Canti XXXII e XXXIII dell'Inferno della Divina Commedia di Dante Alighieri.

Cocito


Canto XXXII

[...]

(16) Come noi fummo giù nel pozzo scuro
   sotto i piè del gigante assai più bassi,
   e io mirava ancora all'alto muro,
dicere udi'mi:«Guarda come passi;
   va sì, che tu non calchi con le piante
   le teste de' fratei miseri lassi».
Per ch'io mi volsi, e vidimi davante
   e sotto i piedi un lago che per gelo
   avea di vetro e non d'acqua sembiante.

[...]

(31) E come a gracidar si sta la rana
   col muso fuor dell'acqua, quando sogna
   di spigolar sovente la villana;
livide, insin là dove appar vergogna
   eran l'ombre dolenti nella ghiaccia,
   mettendo i denti in nota di cicogna.
Ognuna in giù tenea volta la faccia:
   da bocca il freddo, e dalli occhi il cor tristo
   tra lor testimonianza si procaccia.
Quand'io m'ebbi dintorno alquanto visto,
   volsimi a' piedi, e vidi due sì stretti,
   che 'l pel del capo avìeno insieme misto.
«Ditemi, voi che sì strignete i petti»,
   diss'io, «chi siete?» E quei piegaro i colli;
   e poi ch'ebber li visi a me eretti,
li occhi lor, ch'eran pria pur dentro molli,
   gocciar su per le labbra, e 'l gelo strinse
   le lacrime tra essi e riserrolli.
Con legno legno spranga mai non cinse
   forte così; ond'ei come due becchi
   cozzaro insieme, tanta ira li vinse.
E un ch'avea perduti ambo li orecchi
   per la freddura, pur col viso in giùe,
   disse: «Perché cotanto in noi ti specchi?»

[...]

(124) Noi eravam partiti già da ello
   ch'io vidi due ghiacciati in una buca,
   sì che l'un capo all'altro era cappello;
e come 'l pan per fame si manduca,
   così 'l sovran li denti all'altro pose
   là 've 'l cervel s'aggiugne con la nuca:
non altrimenti Tideo si rose
   le tempie a Menalippo per disdegno,
   che qui faceva il teschio e l'altre cose.

Canto XXXIII

(91) Noi passammo oltre,là 've la gelata
   ruvidamente un'altra gente fascia,
   non volta in giù, ma tutta riversata.
Lo pianto stesso lì pianger non lascia,
   e 'l duol che truova in su li occhi rintoppo,
   si volge in entro a far crescer l'ambascia;
chè le lagrime prime fanno groppo,
   e sì come visiere di cristallo,
   riempion sotto 'l ciglio tutto il coppo.
E avvegna che, sì come d'un callo,
   per la freddura ciascun sentimento
   cessato avesse del mio viso stallo,
già mi parea sentir alquanto vento:
   per ch'io: «Maestro mio, questo chi move?
   non è qua giù ogne vapore spento?»
Ed elli a me: «Avaccio sarai dove
   di ciò ti farà l'occhio la risposta,
   veggendo la cagion che 'l fiato piove».
E un de' tristi della fredda crosta
   gridò a noi: «O anime crudeli,
   tanto che data v'è l'ultima posta,
levatemi dal viso i duri veli,
   sì ch'io sfoghi 'l duol che 'l cor m'impregna,
   un poco, pria che 'l pianto si raggeli».
per ch'io a lui:«Se vuo' ch'i' ti sovvegna,
   dimmi chi se', e s'io non ti disbrigo,
   al fondo della ghiaccia ir mi convegna».

[...]

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Divina commedia - Canto 32 e 33 dell'Inferno
ID pagina: 374-S054
Data creazione: 06/10/2002
Ultimo aggiornamento: -
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